Ciccio Cefalù
Nella personale Spoon River che negli anni va componendosi per ognuno di noi, compaiono affetti privati e pubbliche simpatie, per persone, o per meglio dire personaggi, che sentiamo cari, pur non conoscendoli direttamente. È il nostro mondo, che come un serpente si leva a poco a poco la pelle di dosso a ogni muta e la abbandona dietro di sé nel cammino che compie per quella che siamo usi definire la nostra strada.
Ciccio, o Don Ciccio come lo chiamavo, o Ciccio Cefalù com’era universalmente noto avendo preso, con un’abitudine d’altri tempi, il nome dal luogo nel quale si era espresso, per me era l’uno e l’altro: personaggio pubblico e amico. D’altronde, era difficile non sentirlo tale, tante la sua empatia, simpatia, gioia di vivere, e disponibilità.
È stato un ambasciatore della sua terra, la Sicilia, della sua gara, la Targa Florio, della sua città, l’incantevole Cefalù. Ed è stato un cantore, a suo modo, di quell’automobilismo bello, il più bello, ovvero quello di un tempo, nel quale i piloti erano divinità per come guidavano, non per quanto guadagnavano.
Ho scritto tante volte di lui, perché gli volevo, come tutti, bene. Era una persona di cuore. C’è stato un periodo che ogni anno mi mandava un paio di scarpe: era il suo modo di dimostrarmi la sua amicizia, il suo bene. Come per un poeta scrivere una poesia. Lui si esprimeva così, con l’arte di creare quelle calzature inimitabili che rimarranno le sue sole, per sempre.
Mi piacevano così tanto che un giorno gliene chiesi un paio per camminare, non soltanto per guidare. Me le fece su misura, naturalmente, adatte ai miei piedi di lunghezza diversa. Gli chiesi un tacco più alto, per aumentare la comodità nel passeggio, e una punta arrotondata, per starci bene dentro. Le fece in cuoio chiaro. Erano stupende. Ma più bella ancora fu la presentazione, al telefono, che come ogni volta accompagnava il ricevimento delle scarpe: la sua descrizione della pelle, che era il suo pallino, del suo colore, della sua lavorazione. Della sua unicità. Perché Ciccio sapeva rendere unico ogni paio di scarpe, anche quelle nere da guida, le più classiche.
Le usai a lungo e ricevetti molti complimenti, perché erano belle e, lo posso dire ora, avanti sui tempi. Avevo un’amica nel mondo della moda. Le domandai se non fosse bello avviare una produzione di calzature del genere, a marchio Ciccio Cefalù. L’idea le piacque e mi presentò un produttore, che ne fu entusiasta. “Sono in partenza per una fiera importante”, disse, “appena torno stendiamo il contratto con Ciccio”. Lui era contento, perché vedeva l’ulteriore coronamento di una carriera cominciata, tanti anni prima, al Club Méditerranée. Ma un paio di giorni dopo il produttore mi telefonò, direttamente dalla fiera: era pieno di cloni delle scarpe di Ciccio! Trasalii. Chiamai Ciccio, e lui mi spiegò che qualche mese prima aveva fatto una mostra importante: evidentemente qualcuno aveva avuto la nostra stessa idea. “Ciccio, abbiamo perso l’opportunità di diventare ricchi”, gli dissi. E lui: “Non ci pensare, non sono i soldi che contano”.
Perché per lui era davvero così: era la poesia del lavoro, a contare, l’amicizia dei suoi vecchi piloti che lo andavano a trovare ogni volta che scendevano in Sicilia, l’affetto dei nuovi clienti, che serviva, tutti, come fossero principi.
Aveva, innato, il senso dell’ospitalità, peraltro tipico della Sicilia, e come ho scritto era di una generosità senza pari. Lo coinvolsi anche quando decisi di partecipare a L’Eroica, l’evento con le bici d’epoca. Si usano scarpini da ciclista di un tempo, che vengono rifatti oggi, identici. Ma io ne volevo un paio speciale. Li chiesi a Ciccio e lui declinò la sua forma da guida in una ennesima creazione. Fece uno scarpino da bici che definire bello è riduttivo. Lo fece di una pelle color corallo rosa. Mi disse che l’aveva usata una sola altra volta, ora non ricordo più per chi, se per Luca Montezemolo o un pilota dei suoi. Non so riferire, a Gaiole, l’invidia delle persone verso quegli scarpini, poi modificati inserendo una lastra di metallo nella suola per renderli della rigidezza necessaria ad alzarsi sui pedali.
Il ricordo di Ciccio, ora che lui non c’è più, genera in me un sorriso, tanta era la sua bontà e la gioia che esprimeva, sempre. Esso è legato a un altro amico caro, Augusto Capitanucci, che per un ramo è siciliano lui pure e che, tantissimi anni fa, mi presentò Don Ciccio. Augusto ha il senso e il culto dell’amicizia, e una capacità unica di favorire incontri e creare opportunità. È stato proprio lui, qualche giorno fa, a darmi la notizia della scomparsa di Ciccio.
Caro Ciccio, ora che non ci sei più, io ti voglio pensare in qualche luogo, magari a Cerda, accanto ai tuoi amici piloti, Vic, Niki, Clay, Ninni, tutta l’allegra brigata dei piedi pesanti, e ve la state spassando a sentire quei motori da corsa gridare mentre le auto sfrecciano sulle strade della Targa, il vostro, supremo amore.